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Tipi che scompaiono ( Borgovecchio , anni '50)

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    Il Borgovecchio era una comunità fatta di artigiani, ‘camarant’, operai e operaie della limitrofa industria farmaceutica Recordati, che dava lavoro alle ragazze e appestava, appena appena un po’, l’aria di quella contrada con i suoi afrori chimici. Oltre al “gobb Sigòla”, un altro personaggio che affascinava me bambina era il cavallante, cioè il conduttore di carro e cavallo che faceva il servizio di trasporto, un specie di corriere, che campava la famiglia con questa attività: robusto, nerboruto, mi incuriosiva per il colorito acceso che la sua carnagione di biondissimo assumeva in conseguenza dell’esposizione all’aria aperta, per le ciglia quasi bianche e gli occhi di un azzurro così pallido da sembrare bianchi anch’essi, nel rossore diffuso del volto; ma la vera attrattiva era costituita dal cavallo, anzi dalla cavalla, una possente creatura di razza nordica, dagli ampi zoccoli frangiati, dalla criniera biondastra, tanto che, ai miei occhi, poteva essere benissimo imparentata co

I cappelletti di Capodanno

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  Il giorno di Capodanno la mamma faceva, come sempre, i cappelletti in brodo. Era un rito inderogabile che cominciava qualche giorno prima: lo stracotto cuoceva per ore spandendo nella cucina il profumo di chiodi di garofano, vino rosso e noce moscata, l'afrore della carne rosolata arrivava dappertutto e tanto più deciso e marcato, tanto maggiore era la garanzia di un risultato strepitoso. La sfoglia era tirata a mano, rotonda, setosa, sottile come un foglio... ricordo che ne rubavo dei ritagli per abbrustolirli sulla piastra della stufa, come croccanti chips che sapevano di noccioline. I cappelletti con il loro ripieno disposto a palline si allineavano, panciutelli e tutti uguali, come reparti di soldatini schierati per la battaglia della festa. C'è tutta una tecnica sapiente per fare i cappelletti : gesti antichi di anni e anni, generazioni di ' 'sdore'' che l'hanno tramandata di madre in figlia : prendere il quadratino di pasta, posarci al centro un mucc

personaggi del passato- Borgovecchio

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  La contrada di Borgovecchio confinava con una zona non edificata in cui forse un tempo si coltivavano gli orti suburbani e con un ampio viale di ippocastani che serpeggiava sul tracciato dell’antico fossato, ma, almeno al tempo di cui mi ricordo, ospitava un vasto gioco da bocce e uno spiazzo in cui si fermavano i carrozzoni delle giostre e degli scalcinati, piccoli circhi equestri, praticamente la sola forma di divertimento popolare. A interrompere la cerchia compatta delle case aprirono negli anni ’50 un sottopasso, unico accesso allo spazio esterno, fiancheggiato da una modesta trattoria, un’osteria con rivendita di tabacchi, tenuta da un personaggio pittoresco: “ al gobb Sigòla,” un ometto del tutto simile ad un goblin, con una assai prominente gibbosità che ne spiegava l’epiteto in modo lapalissiano e con una moglie arcigna e rossa di pelo, non altrimenti nota che come “la Dirce d’Sigòla”, la Dirce di Cipolli, posto che Cipolli o Cipolla fosse l’autentico cognome della famiglia

Storie di case - Borgovecchio

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  Borg ovecchio . La prima casa di cui ho memoria è quella in Borgovecchio, a Correggio. Potevo avere allora solo due o tre anni, ma ho il ricordo di un portico scuro e squallido (erano gli anni ’50); di un incredibile gabinetto posto su un alto gradino in muratura: un buco puzzolente, privo di acqua corrente, che veniva sommariamente tappato da un coperchio di legno dotato di un lungo manico. Penso che fosse così dai tempi dei tempi in cui il vetusto edificio era stato costruito: strette scale buie, anditi e ballatoi polverosi, le camere passanti che lasciavano completamente ciechi i locali intermedi; il quartiere era, ed è, il più antico della cittadina di Correggio, nella quale ho avuto fortuitamente i natali. Di quella casa ho in mente solo una stanza, la cucina, con un vano senza porta che portava in un secondo ambiente diviso con una tenda a motivi bianchi e verdi che tentava di garantire un minimo di privacy al lettone in cui dormivamo tutti e quattro: io, mia sorella, mamma

Lorenzo, o come lo dicevan tutti, Renzo

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  Lo so che appare un incipit   scontato, ma per davvero lo zio Renzo, come lo chiamavano tutti, era Lorenzo all’anagrafe come il Tramaglino di Don Lisander, il Manzoni dei Promessi sposi. Nato nella bassa Lomellina, cresciuto in una famiglia contadina lo zio Renzo era riuscito ad affrancarsi dal lavoro nei campi per approdare alla professione di "lustron" lucidatore di mobili, in un periodo nel quale questo mestiere era ancora del tutto manuale e affidato alla perizia di artigiani che si tramandavano di generazione in generazione il segreto della gommalacca, dello spirito e del tampone di straccio. Lo zio Renzo aveva fatto la  Seconda Guerra in Africa come bersagliere ciclista, aveva ancora il casco piumato con il ciuffo di lustre penne di gallo che mostrava con un sospetto luccichio negli occhi chiari, di un colore così trasparente e cangiante da parere ora grigi ora verdi. Di quella esperienza bellica non conservava un buon ricordo, fatto prigioniero dalle truppe inglesi,

Gabriele (finale di stagione)

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  Non so quanto l’incontro con la ragazzina diciottenne che ero abbia cambiato le prospettive o le decisioni di vita del Gabriele fresco di congedo, a ventitré anni, ma di fatto fu così. Dopo qualche vicissitudine e ripensamento, abbandonò la scelta della professione di chef, che pure gli piaceva tanto, per un più stabile impiego nella stampa a rotocalco; perciò seguì   la maestrina di prima nomina che prendeva servizio a Marchirolo e si trasferiva in pianta stabile da La Spezia   a Lavena, cominciando una nuova vita sul lago. La sua passione per la pesca, per l’acqua in generale e per questa esperienza d’acqua dolce che gli riportava alla memoria reminiscenze passate, lo fece adattare senza problemi alla vita del borgo. Due amori della sua vita, o forse tre, si trovavano così riuniti in un solo ambiente: la navigazione, con il suo burchiello, che curava e coccolava come una fuoriserie, la pesca con la canna, soprattutto ai boccaloni, i magnifici persici-trota che abbondavano nei canne

Gabriele, Il "marò" ( parte seconda)

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  Il mare è stato il secondo amore ‘’acquatico’’  del coscritto Gabriele Benetti da Adria, arruolato in marina e subito assegnato alla squadra atleti per il calcio, nella Capitaneria di porto di Taranto. I racconti di quel periodo sono forse quelli più affascinanti, anche se ricostruiti per accenni, per brevi aneddoti, per rievocazioni  circoscritte: come quella dello scontro con i contrabbandieri di sigarette, siamo negli anni’60 e questo commercio fioriva fra le coste della Puglia e la Grecia o l’Albania dall’altra parte, la motovedetta della Guardia costiera inseguiva la lancia dei contrabbandieri che, scaricata la merce dall’imbarcazione al largo, si dirigeva verso l’approdo  nella parte della città vecchia; gli occupanti  certo non avevano intenzione di cedere il loro carico e uno di loro, per allontanare questa possibilità, vibrò un colpo con un remo verso gli occupanti del mezzo militare. ‘’ Guarda, ho ancora la cicatrice’’ mi diceva,  e si tastava in mezzo ai capelli verso la n